Gli Stati Uniti hanno registrato, lo scorso anno, un boom di richieste di registrazione di hashtag, brevi frasi o anche singole parole precedute dal simbolo ‘#’.
Solo nel 2015, l’US Patent and Trademark Office ha ricevuto 1.398 richieste: un balzo significativo se paragonato alle prime 7, pervenute nel 2010, contando inoltre che le richieste totali schedate sono all’incirca 2.800.
Tuttavia, lo stato giuridico degli hashtag continua a rimanere fumoso. Per gli USA, così come l’Italia, questi devono essere registrati come veri e propri marchi, applicando tutte le norme e procedimenti “tradizionali”.
Tra queste, possiamo citare le seguenti condizioni: l’hashtag non può essere una parola o un insieme di parole generiche; deve essere specificato nella domanda la classe di beni o servizi relativi; non è possibile includere il nome di un marchio che è già in uso; deve presentare i requisiti di novità e originalità che ne garantiscano un carattere identificativo.
Registrando un hashtag, proprio come con qualsiasi altro marchio, una società può evitare che la concorrenza usi gli stessi (o simili) hashtag: ma questo non impedisce agli utenti dei social media di utilizzarlo (anche nei casi in cui le modalità e il contesto della citazione sono negative rispetto agli interessi di un brand).
Secondo il report “#CanWeTrademarkIt?”, presentato da Thomson Reuters, i paesi che nel 2015 seguono gli Stati Uniti, per numero di richieste di registrazione di hashtag depositate, sono il Brasile (321 richieste), la Francia (159), l’Italia e il Regno Unito(115 richieste per entrambe).
Si apprende inoltre che le categorie di hashtag legate al mondo della moda sono le più comuni: stanno già facendo storia l’hashtag #everydaymadewell del brand Madewell o #letyourselfgo di Hudson.