Con il presente contributo si intendono analizzare taluni casi di contraffazione di marchi italiani da parte di imprese cinesi, evidenziando le modalità di tutela legale da adottarsi e la prassi del sistema giudiziario cinese in materia.
È opinione comune pensare che, soprattutto in Cina, non si possa efficacemente contrastare la violazione dei diritti di proprietà.
Ebbene, ciò non corrisponde al vero: la legislazione cinese offre, infatti, diversi strumenti per reprimere eventuali comportamenti illeciti.
Anzitutto, sono presenti due possibili procedure di reclamo: l’una davanti ad uno specifico organo amministrativo e l’altra innanzi all’autorità giudiziaria.
Tuttavia, se si intende tutelare con massima efficacia il proprio marchio, è necessario registrarlo in Cina o, qualora sia stato già oggetto di registrazione internazionale convenzionale, chiederne l’estensione al territorio cinese. Il motivo sta nel fatto che, in Cina, vige il principio di priorità della domanda, nel senso che prevale chi per primo l’ha presentata e non chi per primo ha usato il marchio. Per tale ragione è auspicabile e opportuno che, prima di iniziare ad operare in Cina, l’impresa provveda alla registrazione del marchio, optando per una delle citate modalità.
Non si deve trascurare, poi, la possibilità di effettuare – unitamente alla registrazione in caratteri latini – la registrazione della versione cinese del marchio, ovvero del marchio in ideogrammi cinesi. Tale pratica è consigliabile per evitare che terzi utilizzino marchi trascritti con ideogrammi cinesi aventi il medesimo suono di quelli registrati nella versione latina, creando in questo modo confusione ai consumatori.
Solo a seguito della registrazione del marchio, il titolare può, dunque, efficacemente esperire l’azione giudiziale ovvero ricorrere all’autorità amministrativa.
Nel caso si opti per tale ultima soluzione, è comunque garantita la possibilità di impugnare in sede giurisdizionale la decisione assunta dall’organo amministrativo.
I procedimenti vengono introdotti, quindi, con il ricorso all’Autorità amministrativa e proseguono con una seconda fase in cui viene coinvolta l’Autorità giudiziaria; tale strada, tuttavia, appesantisce la procedura, determinando un allungamento dei tempi necessari per giungere ad una sentenza definitiva.
Giova, dunque, valutare con attenzione quale dei suddetti rimedi sia più adatto. A tal proposito, si segnala che il ricorso all’autorità amministrativa permette di ottenere, in tempi abbastanza rapidi (in genere, dai tre ai sei mesi) e con costi contenuti, ordini di cessazione immediata dell’uso del marchio contraffatto, provvedimenti di sequestro dei beni già prodotti e recanti il marchio contraffatto, nonché l’irrogazione di sanzioni amministrative.
In ogni caso, a tali vantaggi si contrappongono alcune criticità: innanzitutto, le sanzioni amministrative sono quasi sempre di scarsa rilevanza e, in secondo luogo, in tale sede, non è possibile chiedere ed ottenere il risarcimento dei danni. Per queste ragioni, si consiglia di ricorrere all’autorità amministrativa solo nel caso in cui si tratti di una ipotesi di contraffazione poco avanzata.
Se, al contrario, la violazione è ritenuta grave, appare opportuno seguire la strada giudiziale, tenendo presente però che i tempi e i costi di tale soluzione sono senz’altro più elevati.
A questo punto, però, è importante capire se le autorità cinesi siano o meno propense a tutelare gli imprenditori italiani che lamentano (o, meglio, subiscono) contraffazioni da parte di imprese cinesi.
Appare dunque utile, a tali fini, ricordare il caso che ha visto coinvolta una nota azienda italiana leader nella produzione di alimenti, che nel 2003 ha citato in giudizio una concorrente cinese, per avere quest’ultima prodotto e messo in commercio dei prodotti in tutto identici ai più noti prodotti italiani.
Il giudice di primo grado non ha accolto l’istanza; al contrario, tuttavia, la sentenza del giudizio d’appello, poi confermata dalla Corte Suprema di Pechino, ha ingiunto alla azienda cinese di porre immediatamente termine alla produzione contraffatta, condannandola altresì al pagamento di 50 mila euro a titolo di risarcimento danni.
Ancor più rilevante è stata la vittoria di un ulteriore gruppo italiano (elettrodomestici) nella causa contro un produttore di scaldacqua cinese.
L’accusa rivolta alla società era di aver copiato non solo i prodotti, ma anche il logo e la ragione sociale, facendo uso della trascrizione fonetica del marchio italiano. Anche in tale caso le Corti cinesi, di primo e secondo grado, hanno riconosciuto la sussistenza della contraffazione del marchio e la concorrenza sleale. E ciò non era affatto scontato, soprattutto se si pensa che, secondo l’ordinamento cinese, al fine di ottenere il citato accertamento, è necessario che i due marchi siano identici.
In particolare, la sentenza di primo grado, confermata di recente dalla Corte di Appello di Shanghai, ha statuito che la società cinese è un contraffattore, pur avendo utilizzato nomi composti, e che il marchio italiano gode in Cina di high reputation, e quindi di uno status molto importante che consente di poter ottenere maggiore tutela contro le contraffazioni.
Tale ultimo aspetto appare il più significativo della sentenza, dal momento che l’alta reputazione è uno status attribuito a rare realtà industriali estere, atteso che tale status risulta difficile da provare in sede giudiziale.
Ciò che altresì rileva è la condanna inflitta alla società cinese, consistente: nel risarcimento dei danni - a dire il vero piuttosto esiguo (circa 33.000 euro) -; nell’obbligo di cancellare il sito web e cambiare la ragione sociale della società; nonché nell’obbligo di pubblicare su tre testate giornalistiche un’inserzione in cui la società cinese ha dovuto dichiarare esplicitamente di aver contraffatto il marchio italiano.
Si tratta - come è evidente - di una condanna, in termini reputazionali, molto pesante, che sicuramente può rappresentare un forte deterrente per i numerosi produttori cinesi che sono soliti contraffare i prodotti italiani e, soprattutto, un incentivo per tutte quelle imprese italiane che vogliono investire in un Paese, come la Cina, oramai decisivo per le strategie di crescita, e allo stesso tempo difendere il proprio marchio.
È così dimostrato che, negli ultimi anni, la situazione è notevolmente migliorata: oggi, a differenza di quanto accadeva in passato, le sentenze cinesi in materia di proprietà intellettuale non sono né approssimative né parziali.