Branding non significa Grafica, e passare dalla Grafica al Branding non è così facile come possa sembrare, anzi.
Insegnare il branding a dei designer, o meglio, a dei futuri designer è come cercare di trasformare un individuo istintivo in un ingegnere, e viceversa. Il branding ha una base fortemente strategica e razionale, ma senza una creativa codificazione delle intenzioninon potrà mai raggiungere il suo scopo. Inoltre il branding è una materia multidisciplinare, ha mille variabili e coinvolge tanti ambiti differenti tra loro: marketing, finanza, prodotto, comunicazione, design, management, distribuzione, promozione ecc.Infatti, la più grande criticità del branding è mettere in fattiva relazione tra loro i vari comparti di un business, affinché si possa ottenere una vision comune in ogni performance dell’azienda.Per insegnare il branding, la prima cosa, è capirne il vero significato.
Il branding rappresenta una mentalità di business che, anziché essere basata prevalentemente sul prodotto, è orientata alla vendita di un brand. Per brand, marca e non marchio, si intende un’entità valoriale in grado di rappresentare un’impresa, un prodotto, un servizio o un’insegna.Da qui si evince che con l’affermazione di una marca, ci si può permettere di associarle diversi prodotti, anche di merceologia differente, con un’evidente opportunità di crescita e sicurezza commerciale. Ma far evolvere una mentalità di business in questa direzione, specialmente per l’imprenditoria media italiana, non è proprio come bere un bicchier d’acqua.
Quindi, insegnare il branding a un’impresa comporta, da una parte, che il suo management debba avere un visione a lungo termine e, dall’altra, che si riesca a far comprendere loro i vantaggi che si possono ottenere. Un modo sicuramente utile è portare degli esempidi successo dal mercato, ma ancor più efficace è presentare una serie di rischi che un’azienda può incorrere se non aggiorna la propria strategia.Per esempio, un’azienda che si è costruita negli anni una certa leadership, grazie alla qualità dei suoi prodotti, deve necessariamente capitalizzare quanto ottenuto “trasformando il proprio marchio in una marca”, perché i mercati emergenti stanno invadendo ogni settore con prodotti identici alla metà del prezzo.
Ed è, detto senza malizia, da miopi non rendersi conto che la qualità è ormai la stessa o che il bisogno della durata di un prodotto non è più un fattore decisivo come vent’anni fa. Un altro caso, molto frequente, è di aziende di settori indifferenziati, come quello farmaceutico o assicurativo, dove la marca sta velocemente sostituendo il prodotto. Infine, se parliamo di servizi, le aziende italiane che operano in ambito business-to-business devono accelerare la loro evoluzione, perché molto presto non riusciranno più a competere con le realtà straniere che, grazie alla globalizzazione, stanno abbattendo vecchie barriere quali la lingua, la distanza, nazionalismi, la moneta, pregiudizi e preoccupazioni sulla non comprensione del nostro territorio.