Stando alla recente ricerca Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsibility and Sustainability, anche in Italia sono in aumento i consumatori disposti a pagare un premium price per brand sostenibili.
L’indagine, condotta da Nielsen su un campione di 30.000 utenti internet in 60 Paesi, tra cui l’Italia, rivela che nell’ultimo anno le vendite delle marche impegnate a livello sociale ed etico sono cresciute in termini di fatturato di più del 4%, a differenza di quelle scoperte su questo versante, il cui giro d’affari è incrementato meno dell’1%.
A livello mondiale, ben il 66% dei consumatori dichiara di essere disposto a pagare di più per un brand “responsabile”; in Europa il dato si attesta al 51% (2014: 40%; 2013: 37%). Tra gli italiani questa percentuale è passata dal 32% nel 2012 all’attuale 52% (2014: 45%; 2013: 44%).
L’analisi riporta dati interessanti a livello di mercati e target di consumatori. I continenti più ricchi sono meno sensibili al tema della sostenibilità rispetto agli emergenti: nel Nord America la quota dei consumatori propensi a pagare un prezzo superiore per l’acquisto di prodotti sostenibili è più contenuta (44%) rispetto al Sud America(71%), all’Africa e al Medio Oriente/Pakistan (75%), all’Asia del Pacifico (76%) e al Sud-Est Asiatico (80%).
Confrontando la disponibilità finanziaria dei consumatori, emerge un dato simile: sono maggiormente disposti a pagare di più per un brand sostenibile quanti guadagnano 20 mila dollari all’anno rispetto a coloro che dichiarano entrate per 50 mila (68% contro il 63%).
A livello d’età, i maggiormente propensi a pagare di più per la sostenibilità sono i Millennials (21- 34 anni) e la generazione Z(15-20 anni): la prima si posiziona al 73% nel 2015 (in crescita del 50% rispetto al 2014), la seconda al 72% (era il 55% solo nel 2014).
La sostenibilità è certamente un tema complesso e impattante su tutti i livelli aziendali. Se la produzione e il prodotto sono i primi a doversi adeguare a certi standard, è utile ricordare anche l’influenza della marca.
Sempre dalla ricerca, a livello globale la classifica dei fattori “sostenibili” che inducono all’acquisto è la seguente: il 62%dichiara di preferire i brand di fiducia; il 59% i prodotti che hanno aspetti salutistici; il 57% sceglie in base alla freschezza e agli ingredienti naturali; il 45% preferisce le aziende produttrici sensibili alle istanze ambientali; il 43% le aziende impegnate nel sociale; il 41% utilizza come parametro il packaging non inquinante; sempre il 41% il fatto che il produttore impatti positivamente sulla comunità locale; il 34% si fida dell’adv televisivo del prodotto contenente messaggi rivolti alla società e all’ambiente.
L’impegno etico, uno degli aspetti della sostenibilità, diventa premiante anche nell’advertising: se il 17% dichiara di aver acquistato dopo avere visto il messaggio pubblicitario televisivo di un prodotto, la percentuale sale al 21% se il messaggio contiene riferimenti alla sostenibilità dell’operatività della marca.
In Italia, nella classifica dei driver di sostenibilità nel nostro Paese, la fiducia nel brand si posiziona al 53%. Al 41% si riscontra il fatto che la società produttrice sia eco-friendly, al 38% che il packaging sia a basso impatto ambientale, al 33% che il brand sia impegnato nel sociale, al 31% il fatto che l’azienda abbia un impatto positivo sulla comunità territoriale locale.
Tutti segnali, questi, che lasciano trasparire una maggiore consapevolezza rispetto l’importanza del singolo acquisto, preferendo comprare “meno” ma “miglio”.
Una filosofia che sta entrando sempre più anche in uno dei mercati di largo consumo più complessi in tema di sostenibilità: la moda.
È recentemente nata, infatti, una applicazione gratuita per iOS e Android in grado di informare circa il know how più o meno green dei fashion brand, e insieme elencarne la modalità di impatto su persone, pianeta e animali: si chiama Good on You, ed è stata lanciata dall’australiano Gordon Renouf (fondatore e CEO).
Nasce in Australia l'App Good on You, il cui obiettivo è informare il consumatore circa l'attitudine più o meno green dei brand di moda, da quelli del lusso a quelli low cost.
Ecco come funziona l’App: il tour virtuale nella filiera produttiva può partire dalla ricerca della marca da esaminare, oppure passando attraverso l’elenco delle categorie per scoprire quali sono i marchi di moda (da quelli di lusso ai low cost), che hanno un impatto su ambiente, animali e persone basso. Il feedback – influenzato dalla quantità di chilometri in più rispetto allo zero, o dai dati positivi e super eco – può essere immediato e il commento subito postabile, attraverso i seguenti giudizi: Ottimo, buono, quasi buono, non abbastanza buono, da evitare.
Tra le aziende già presenti e quindi esaminate figura anche il colosso H&M, valutata con un quasi buono, lenta sulla questione tutela del lavoro e restii a svelare la tipologia e le modalità di utilizzo dei pellami.
Good On You lavora raccogliendo le informazioni pubbliche o ricavate da enti quali il Global Tessile Standard: «La nostra mission è quella di raccoglierle tutte in una bacheca 2.0, e insieme essere di aiuto per tutti coloro che vogliono conoscere qualcosa di più di ciò che acquistano», ha dichiarato Gordon Renouf, «e i brand di moda sono soltanto il punto di partenza, in futuro contiamo di inserire anche cosmetici e prodotti hi-tech».
Una vera e propria contro tendenza rispetto al modello fast fashion, basato sul sistema produttivo “a risposta veloce”, nato negli anni ‘80, che permette di proporre nuove collezioni settimanalmente (rendendo arcaiche le collezioni stagionali) grazie alla dislocazione della produzione in Paesi dai costi del lavoro fortemente inferiori a quelli europei: basti pensare a catene come Zara, Topshop, Pull&Bear e, appunto, H&M.
I dati di questa moda “usa e getta” mostrano una crescita pari a più del 400% rispetto a 20 anni fa: oggi una donna possiede in media quattro volte la quantità di vestiti rispetto agli anni ‘80 e durante l’arco di un anno una buona quantità di questi capi vengono gettati con conseguenti maggiori costi di smaltimento e crescenti anni all’ambiente.
Le principali marche protagoniste del "fast fashion", modello di business basato sul concetto di produzione veloce: molti di questi brand hanno trasformato il concetto di "collezione", da stagionale a settimanale.
Eppure i passi verso un’industria della moda più sostenibile ci sono e si vedono, non solo grazie all’informazione (partendo dall’App Good for You per arrivare al film “The True Cost” di Andrew Morgan o il libro “Sustainable Fashion: Past, Present and Future” di Jennifer Farley Gordon e Colleen Hill), ma anche grazie a brand, siano essi affermati o emergenti.
Sono sempre di più i marchi che fondano la propria attività su un’offerta sostenibile: cotone organico, materiali durevoli e di qualità, trasparenza sulla filiera produttiva e impegno verso l’ambiente e i lavoratori.
Come poter dimenticare, in questo scenario, il brand Patagonia, il cui impegno parte dalla produzione e dall’impegno socio-ambientale per arrivare alla pubblicità: in molti ricorderanno infatti la campagna“Don’t buy this jacket” (“Non comprare questa giacca”), che invita i clienti a comprare meno e conservare meglio, anche riparando, i propri capi vecchi.
La campagna del 2011 "Don't buy this jacket" ("Non comprate questa giacca") di Patagonia invita i clienti a comprare meno capi d'abbigliamento nuovi e riparare, riusare e riciclare i propri abiti vecchi.